giovedì 29 dicembre 2011

2011 - Sotto il segno della fine



A pochi giorni dalla fine dell'anno eccomi a fare un bilancio delle visioni di questo 2011 cinematografico. Per chi scrive si tratta di un'annata folgorante. Ho avuto l'impressione che alcuni film si inseguissero, si guardassero, si rispondessero perfino. Il tema apocalittico della Fine non è mai stato così forte. Mi è sembrato che "The Tree of life", "Melancholia" e "Faust" comunicassero tra loro. Son film diversissimi, per carità, eppure sono così vicini. Poi ho visto "Il cavallo di Torino". Era come se un percorso casuale e indeterminato stesse prendendo una forma. Non è questa la sede per analizzare i quattro film, i rimandi, le assonanze, le totali divergenze (di pensiero, di forma, di visioni) ma è sorprendente che siano usciti nello stesso anno, che si siano scontrati/incrociati. Che abbiano cinematograficamente dialogato. Sarei curioso di vedere anche l'ultimo film di Abel Ferrara a riguardo, che con la fine del mondo c'entra non poco.
Non si può non essere grati, dunque, a un'annata che ha offerto film così importanti. Il valore fondativo di "The Tree of Life" è inestimabile. Aver sentito il sudiciume del "Faust" in sala è qualcosa di irraccontabile. In direzioni diverse si muovono Refn e Kaurismaki, cantori lontani ma vicini di un cinema che rivendica il suo statuto illusorio.
E gli Italiani? Ormai disgustato da un produzione meanstream nazionale imbarazzante, ho incluso nella classifica il bellissimo esordio "Corpo celeste". Davanti a una produzione nazionale tanto modesta, "Corpo celeste" è un urlo di speranza necessario. Comunque sia penso che il panorama più interessante per il cinema italiano odierno sia il documentario. Segnalerei qui, anche se non l'ho incluso nella playlist, il talentuoso Pietro Marcello che dopo l'ottimo "La bocca del lupo" ha girato "Il silenzio di Pelesjan", bellissimo documentario sul grande regista Armeno (troppo spesso dimenticato).



Nella playlist, purtroppo, non trovano spazio alcuni film usciti nel 2011 che, almeno qui, vorrei segnalare: il caustico kammerspiel "Carnage" di Roman Polanski; il contagioso "A dangerous method" dove Cronenberg teorizza la sua intera filmografia; il buon "13 Assassini" del poliedrico Takashi Miike, ma anche il disperante e ambiguo "Arirang" di Kim Ki Duk e il riuscito "Poetry" di Lee Chang Dong; Wim Wenders e il suo "Pina 3D" che dimostra come il 3D, se in mano a un vero Autore, possa essere un buono strumento; tra gli altri menzioni particolari a "Ladri di cadaveri" ennesimo gioiellino del grande John Landis. Infine, visto una settimana fa, il buon "Le idi di Marzo" che conferma le capacità di Clooney regista (e ha un cast in stato di grazia). E di fronte alle poche delusioni cocenti di quest'anno (vedi il pessimo "This must be the place" di Sorrentino, il mediocre "Cigno nero" di Aronofsky, l'imprenditoriale "Le avventure di Tin Tin" di Spielberg e, sebbene sarò bacchettato a vita, "Herafter" di Eastwood) lascio spazio agli otto grandi film che ho scelto per la playlist.

p.s. purtroppo non ho avuto modo di vedere "Una separazione" di cui ho letto molto bene, e l'ultimo documentario del mio amato Herzog, "The cave of forgotten dreams". Probabilmente sarebbero potuti finire in playlist...



* The Tree of Life
Perché è come vedere per la prima volta.
Perché a reinventare il cinema è il cinema stesso e non i suoi accessori.
Perché è imperfetto come solo le cose grandi lo sono: un meteorite si schianta contro la terra; il dolore di una perdita sul volto di una madre.
Alla violenza come evoluzione Malick preferisce l'amore: la scena dei dinosauri come risposta all'apologo sulle scimmie di memoria Kubrickiana. Con un caleidoscopio sinfonico di immagini di rara bellezza Malick inneggia alla vita, dall'origine del mondo fino alla fine dei tempi. E nel buio della sala ti scopri a piangere.

* Faust
Non è secondo a nessuno (si trova in questa posizione solo per obbligo di playlist). Ma non è nemmeno comparabile a nessuno. Faust è un film-mondo, di una grandezza sconvolgente, di un'apertura asfittica e, dunque, ossimorica. Di un lerciume avvolgente. E' un homunculus che respira. E' un mostro ipertrofico che cresce nella mente: più passa il tempo e più avvolge/sconvolge il ricordo. Potente come mai, Sokurov chiude la sua tetralogia. Ma il miracolo vero lo fa con il tempo: come pochi, pochissimi registi nella storia del cinema, reinventa il tempo, lo "scolpisce", lo blocca, lo manipola, lo seda, lo plasma come fosse materia. Istanti irradiati di luce, sguardi epifanici, e scimmie sulla luna. Il Male non è mai stato così spaventosamente banale.

* Melancholia
Perché ho visto tanti film dell'orrore in vita mia ma durante "Melancholia" ero terrorizzato. La fine arriva in un istante. L'angoscia è un'agonia che dura per tutta la vita. Von Trier rintraccia nella depressione lo stadio privilegiato per il sentore della fine. Un prologo di incredibili tableaux vivants e poi quella festa di matrimonio che è già, a tutti gli effetti, la fine del mondo. Melancholia si è già schiantato là, nello sguardo inquieto e perduto di Kirsten Dunst, mentre balla, mentre urina, mentre scopa in un giardino DeChirichiano. E alla fine? Il cinema. La grotta magica.



* Drive
Per il coraggio. Per l'amore devoto, incondizionato, fedele e coerente nei confronti del cinema. Perché in un mondo che ha scordato le differenze tra vero e verosimile, Refn ha la sfacciataggine di credere nel cinema. Il ralenti in ascensore, quando Gosling bacia la bellissima Carey Mullighan, con la luce delle grandi storie d'amore. E poi la violenza come deflagrazione improvvisa e roboante dell'immagine. E così, sedotto dalle forme, nelle ombre scopri un cuore, nelle automobili un'anima, nella violenza un corpo. Fatale, come lo sguardo del Driver.

* Miracolo a Le Havre
Perché, seppur siano film diversissimi, lo ho amato per le stesse ragioni di "Drive": la rivincita del cinema nei confronti della realtà. Cantore coraggioso e sublime, Kaurismaki va in totale controtendenza, inventa un finale poetico e impossibile dove, finalmente, qualcuno ritorna a credere nell'uomo. Kaurismaki non emula la realtà, ne inventa semplicemente una nuova, dominata da altre leggi e pulsioni, più liete e chapliniane, più eccentriche e colorate. Cinema allo stato puro.

* Il ragazzo con la bicicletta & Corpo celeste
Perché i fratelli Dardenne sono gli unici eredi di Robert Bresson: cinema essenziale, ascetico e straordinario. Con una messa in scena di una sobrietà commovente, trovano anche il loro lieto fine.
Dall'altra parte c'è "Corpo celeste" che, a mio avviso, è il migliore esordio Italiano degli ultimi anni. E' un film di sguardi e di silenzi. La Rohrwacher con un solo film dimostra di avere più talento, più sensibilità, più amore rispetto alla maggior parte dei nostri registi (o presunti tali). E con la sequenza dei gatti filma una scena di (in)visibile crudeltà cinematografica.

* Cavallo di Torino
Béla Tarr firma il suo film definitivo. Non il più bello, ma quello finale. Necessariamente finale. Nell'anno delle apocalissi, di Melancholia, di The Tree of Life e di Faust, il quarto sguardo sulla fine è firmato da uno dei più grandi Autori viventi: la fine del mondo è la reiterazione graduale, l'eternamente identico, il riciclo dell'uguale. Se Sokurov reinventa il tempo, Tarr avvolge il suo film con anelli di vento e crea un'esperienza straordinariamente ipnagogica: "Il cavallo di Torino" si staglia nella mente come un fantasma minaccioso e invalido, che vive non vite tra il sonno e la veglia. Oltre la ragione c'è l'abisso. Ma l'abisso non è la fine, solo la ripetizione continua e costante del quotidiano.

giovedì 15 settembre 2011

Primi pensieri in libero disordine: "Faust" di Sokurov

Reduce dalla visione ipnotica e straordinaria del "Faust" di Sokurov, leone d'oro all'ultimo festival di Venezia. Immaginate un mostro deforme, degradante e degradato. Un unicum dalla potenza rara, che ha il potere di squarciare, una volta di più, il dispotivo-cinema. La sua arma? Un talento enorme chiamato Alexander Sokurov.
Il cinema si squarcia a suon di viscere e carne. L'homunculus esce fuori.
Ma per scrivere di carne bisogna prima metabolizzare l'immagine. Respirarla, riesplorarla, perdersi per poi tornare. O forse no.
Lontani dalle scatole industriali il cinema è smarrimento e perdizione.
E noi spettatori protagonisti, tra luci e colori, di quel peccato originario che è l'unica, vera visione.

sabato 11 giugno 2011

Celle frigorifere - "The Mission" di Johnnie To




C'è una profonda malinconia nelle sparatorie di "The Mission". Destini segnati, raffiche di piombo inevitabili e fatali, statue che si sparano. Sì, statue. La bellezza del cinema di Johnnie To, si è detto mille volte ma non ci si stanca mai di ripeterlo, risiede tutta nei blocchi di tempo, nell'aria sospesa, nella cristallizzazione dell'azione. E' l'estetica dell'attesa e della glaciazione. Come Kitano. O forse no. Oltre Kitano
. Hardboiled e noir vengono riesplorati dilatando il genere. A Johnnie To non interessa la sparatoria in sé, ma, sovente, gli sguardi, le attese, i silenzi. Le sparatorie vengono come congelate in una cella frigorifera dove si sta consumando un'autentica coreografia della staticità. Posizioni statuarie, sguardi freddi e decisi, pistole che sono già protesi del corpo. E ancora silenzi. Poi, all'improvviso, uno sparo e la frenesia del genere scioglie il ghiaccio. Johnnie To è capace di reiterare questo meccanismo e di cogliere l'umanità, la malinconia, la vita solo all'interno dello sguardo che precede uno sparo. Questo rende grande la sua cella frigorifera chiamata cinema. E "The mission" ne è l'esempio più straziante. Le dinamiche del genere esistono tutte, dall'amicizia tra le guardie del corpo che devono proteggere il boss Lung fino alla donna del capo che spezza gli equilibri. Ma c'è qualcosa di più. Ci sono dei volti che comunicano sensazioni. Sensazioni non viste, cose non dette. C'è un altro film dietro a "The mission" visibile dalla prima visione ma insieme invisibile.
Ancora, c'è qualcosa di più. Universi visivo-sonori esplosi: il film è tutto nei singoli momenti, tra la comunione del cibo, i "morti" che mangiano e i cecchini invisibili. E infine c'è quella sequenza che trascende completamente il film. E' un momento in una sala di attesa in cui le varie guardie del corpo stanno aspettando il boss. A terra c'è una pallina di carta. Uno di loro guarda i suoi compagni poi la tira all'altro col piede. Pochi secondi dopo un altro tiro. E un altro. E un altro ancora. Un minuto per tornare bambini e non farsi vedere dai "grandi".
Non succede nulla. Semplicemente giocano.
Poi torna il boss e ricominciano con le loro vite.
Istanti, esistenze che volano via come proiettili di pistola, imprevedibili, fatali, indifferenti al mondo che le circonda. Quando il cinema d'azione è puro Cinema.





venerdì 3 giugno 2011

La rivoluzione surrealista dell'oggetto: il cinema immaginifico di Jan Svankmajer



« Il mondo si divide in due categorie di diversa ampiezza… quelli che non hanno mai sentito parlare di Jan Švankmajer e quelli che hanno visto i suoi lavori e sanno di essersi trovati faccia a faccia con un genio. »
(Anthony Lane – “The New Yorker”)

La libertà di Delacroix prende vita.
Una bambina mangia un biscotto e si trasforma in una bambola.

Se dovessi pensare a un cinema autentico, a un cinema che rinnova continuamente il suo precetto fondativo, ovvero quello dell'illusione (e la settima arte lo fa da sempre attraverso la sospensione d'incredulità, l'effetto finto movimento, la narrazione, la recitazione, la messa in scena e ogni altro suo aspetto) penserei ai film o ai corti di quel poeta artigiano misconosciuto e mai arrivato in Italia (se si esclude il buon Ghezzi e Youtube) che è Jan Svankmajer.
Artigiano è la parola giusta. L'artigiano lavora con le cose, modella gli oggetti e li manipola. Ha il potere proprio del demiurgo: creazione come trasfigurazione della realtà. E questo anziano regista Ceco, maestro della stop-motion e esponente di spicco della scuola surrealista di Praga, è prima di tutto un trasfiguratore, un adulto bambino: dentro di sé convergono il cinismo e la lucidità degli adulti con la fantasia e l'immaginazione propria dei bambini.
L'artigiano lavora con gli oggetti, scrivevo. Ma l'oggetto/utensile/cosa viene spogliato dal suo esser mezzo e diventa protagonista. Dietro alle sventure di piccoli esseri umani prorompe una forza anarchica, primordiale e dinamica che non può essere più fermata. Eccola questa forza straripare come un fiume in piena, dirompere aggressiva e mangiare tutto. Terremoti di cose. La rivoluzione surrealista dell'oggetto è incominciata. E' stata ferma per troppo tempo.
E' l'altro mondo di Svankmajer, un mondo popolato da oggetti che prendono vita e reinventano le loro funzioni. I maestri del dadaismo riderebbero di gusto agli occhi di questa de-contestualizzazione della cosa: lo strumento prende vita e reinventa il suo scopo. Due mondi in conflitto. Da una parte questi buffi esseri umani, consumatori/mangiatori di mondi. Dall'altra l'energia dirompente degli oggetti.
Immagini.
Tranci di carne che ballano.
Calzini che prendono vita come bruchi.
Figure orride che si mischiano, si amalgamano, si dividono e poi ritornano unità
.
Ma la pace non è cosa di questo mondo. L'uomo esiste per mangiare, per cibarsi, per riprodursi, per sopraffare. I due mondi entrano in contrasto: le cose si ribellano agli esseri umani, fanno sentire la loro voce, si rivoltano spesso in maniera repellente e violenta, altre volte con leggeri movimenti che fanno presagire una ribaltamento di domini e potere.
Ormai da quasi cinquant'anni Svankmajer si muove reinventando i territori del grottesco e del cinema immaginifico. Le sue rocambolesche visioni hanno influenzato alcuni tra i più eccentrici registi degli ultimi decenni (il primo Tim Burton su tutti). Tra gli anni '60 e '90 ha girato decine di cortometraggi usando la tecnica dello stop-motion, intimizzandola e personalizzandola. Uno dopo l'altro ha creato gioielli come "Et cetera", "Historie naturae", "La caduta della casa Usher", "Il pozzo e il pendolo", "L'appartamento", "Possibilità di dialogo", "Oscurità, luce, oscurità" e moltissimi altri. Comprime gli spazi, fa muovere i suoi personaggi in piccoli e claustrofobici luoghi. Il suo cinema è una trappola dove si muovono piccoli topi dal destino segnato.
E' come se Georges Meliès avesse tramandato il suo caleidoscopio di trucchi e fantasmagorie nelle mani esperte di questo genio Ceco.
Un tronco d'albero che prende vita e mangia tutti.
Due uomini a un ristorante che mangiano i loro indumenti.
Orecchie volanti fuori dalla finestra alla ricerca del loro corpo.

Nel suo surrealismo visionario Svankmajer supera i confini della razionalità e gioca con l'assurdo. Gioca sperimentando, non ha paura del brutto e, spesso, l'orrido, il grezzo e l'osceno sono gli autentici protagonisti dei suoi film. Sono loro, reietti relegati nel mondo delle cose, a vivere di forza propria. Autonomamente. E' un grido morale quello di Svankmajer: la rivendicazione dell'oggetto. Nel suo lungometraggio "Sileni Aka Lunacy", un insolito horror che omaggia il marchese De Sade e Edgard Allan Poe, alla vicenda narrata viene alternata una fuga delle carne, non più disposta a essere inscatolata e mangiata. La materia è viva e si sottrae alle logiche commerciali e industriali della società capitalistica. Ma all'anarchismo e alla forza vitale di questi tranci di carne rivoluzionari la risposta data è la repressione e l'inscatolamento. La carne ritorna prodotto commercializzato. A discapito delle apparenze il cinema di Svankmajer è essenzialmente politico, parla di società consumistiche, parla di mercato e consumo: attenti, sembra che dica, attenti alle illusioni, ai desideri, ai sogni, anche loro possono essere orientati, sedati, intorpiditi, violentati e inscatolati. Proprio come dei tranci di carne. Ma questi tranci continuano a respirare anche in scatola.
La sovversione non può essere estirpata.
In "Pic-Nic with Weissman" l'uomo soccombe e la feroce vitalità degli oggetti sembra inneggiare alla VITA. Cinema dell'inconscio e dell'osceno, cinema della vitalità e delle deformità. E il cibo. Il cibo è onnipresente nei lavori di Svankmajer. E' un cibo che mangia ed è mangiato, che divora insaziabile proprio come il tronco di "Otesanek", memorabile lungometraggio sul padre e la madre, sulla follia e l'infanzia. Una coppia che non riesce ad avere figli. Un tronco dalle fattezze vagamente umane. L'amore di una madre che lo allatta. Il tronco/Pinocchio prende vita ma non diventa un bambino vero. Rimane un tronco e ha fame. Il latte non basta più. Così un giorno il gatto di casa scompare. Poi il postino. E poi anche il padre e la madre. "Otesanek" mangia tutto e tutti, risparmia solo una bambina che lo aiuta e lo ama.
L'infanzia, appunto. I bambini credono. A cosa? Non lo so, l'importante è credere. Crede la piccola Alice che segue il bianconiglio in un campo fatto di nulla. C'è un tavolino in mezzo al campo e il bianconiglio entra dentro a un piccolo cassetto. Poi scompare nel Paese delle Meraviglie. Alice lo segue.
Niente è impossibile, tutto è probabile.
La tecnica stop-motion non scompare mai dai suoi lavori ma anzi viene sapientemente unita alla recitazione in carne ed ossa. In un cinema contemporaneo sempre più digitalizzato e virtuale (e anche gli eredi di Svankmajer, quali Burton, si sono ormai adattati alle logiche di mercato) la stop-motion artigianale è uno splendido e coraggioso atto di resistenza. Si difendono le illusioni e la manualità, gli oggetti e le finzioni. A un'immagine sempre più perfetta lui contrappone l'imperfezione, perché solo nelle imperfezioni si riconosce l'autore, e dunque l'uomo. I suoi pupazzi sono ancora in piedi nella fabbrica di illusioni.
Autentici.
"Credo che la gente" dice "abbia perso il rapporto magico con le cose al contrario dei nostri predecessori"
Dettagli come ingrandimenti magici degli oggetti.
Zoom.
Brevi inquadrature.
Universi sonori deformanti.
Mirabili invenzioni e continue sorprese.
Oggetti decostruiti.
Argilla.
E' come tornare nel mondo dell'infanzia e cavare un occhio alla bambola più bella.
Pratiche ancestrali e giochi primordiali, richiami a unità atemporali, mostri che si cibano di mostri per poi rigurgitarli. Paura infantili. Cinema che reitera i suoi meccanismi e i suoi giochi concentrici. Tutto questo e molto altro è Jan Svankmajer.
E infine stanze. Piccole stanze che sembrano tanto uteri materni che ospitano persone e cose, proprio come avviene in "Oscurità, Luce, Oscurità" dove le varie componenti del corpo umano si uniscono e vanno a formare un feto.
Proprio come se le stanze/mondo di Svankmajer fossero uteri materni.

mercoledì 1 giugno 2011

"Perché andiamo a frugare nell'Universo quando non conosciamo niente di noi stessi?"



Rivedendo "Solaris" di Andrej Tarkovskij nella versione originale e non in quella mutilata vergognosamente dall'Italia rimango di nuovo estasiato e inquietato dalla sequenza più frastornante e aliena del film. La galleria - passaggio ideale terra/Solaris o, forse, Solaris/Solaris. Una partenza tra passato e presente, cinema puro scandito da suoni impuri, migliaia di fotogrammi atemporali in quieta fibrillazione. Kelvin è in procinto di partire, qualcuno è già partito prima di lui. E' un viaggio nel passato che ritorna al futuro, è il colore che irrompe e squarcia il bianconero. E' il rosso accecante e disturbante dei fari delle automobili ammucchiate nella loro corsa inevitabile (inutile?) contro il tempo. Quale tempo? Quello interno all'inquadratura, che la fa respirare e vivere di una scansione temporale propria. Tarkovskij riinventa il tempo e plasma lo spazio. Quale spazio? Lo spazio della galleria o lo Spazio dove viene spedito Kelvin? Il magma pensante della solaristica esiste già qui, a pochi decine minuti dall'inizio del film. I mostri del passato - immagini mentali divenute fisiche - trovano la loro partenza ideale in questi (non)luoghi di passaggio. Al viaggio nello Spazio dell'uomo risponde il viaggio nell'uomo. "Perché andiamo a frugare nell'Universo quando non conosciamo niente di noi stessi?"
Magma pensante, cervello oceanico, creazione in Solaris. Il Tempo non ha più importanza. E lo Spazio siamo noi.

giovedì 19 maggio 2011

Prime impressioni di post-visione su " The Tree of life"


Prime fulminee impressioni di post-visione.
Piccole e improvvise epifanie.
Nel buio della sala non si era mai visto niente del genere. Terrence Malick con l'epocale "The Tree of life" porta il cinema in territori inesplorati, lo reinventa in un'autentica sinfonia di immagini: d'ora in poi il cinema non sarà più lo stesso. Andate a vedere "Tree of life", una preghiera sussurrata di immagini di incredibile bellezza, amatelo, sentitelo, godete delle sue lungaggini e delle sue imperfezioni perché imperfetto è l'essere umano e il suo cuore. Riscoprite la bellezza e l'innocenza della visione. Malick ci riporta all'età dell'innocenza, dall'origine del mondo alla fine dei tempi: è come vedere per la prima volta, è come tornare bambini. E la visione non ha limiti spaziali né frontiere temporali.
Cinema puro oltre il cinema. Mai come ora il mondo è divenuto immagine.
In attesa di altre visioni prima di approfondire l'argomento.

mercoledì 18 maggio 2011

L'assurdo siamo noi - la formula di "Kill Me Please"



Il cinema è sempre andato matto per gli ossimori ( l'effetto illusorio del movimento ne è alla base d'altronde). Il più recente di questi è il non-sense laconico e esilarante di "Kill me please" che insegna non solo come ridere della morte ma anche della vita stessa.
Non c'è più spazio per un dottor Morte. Ma c'è spazio per la Marsigliese.
E' dal Belgio che la commedia nera (ri)esplora i territori un tempo Svedesi e esistenzialisti dell'austero Bergman. Ma lo fa a suon di pallottole, con uno stile stilizzato e folle, che non ha paura dell'anarchia e dell'eccesso, che si concede con vigore, potenza e ironia di cattivo gusto.
Ciò che contraddistingue questo piccolo (grande) film è l'autenticità dell'assurdo, è Samuel Beckett che gioca ad armi pare con la morte. Siamo negli esilaranti territori della commedia grottesca , protagonista una clinica in cui i pazienti sono aspiranti suicidi medicalmente assistiti. Il dottor Kruger è, prima di tutto, un'umanista, un individuo che ha il potere di tessere i fili della vita e inquadrare, dominare la morte, dando la possibilità al paziente di un ultimo desiderio prima dell'atto finale.
Commedia figlia di una tesi, quella che vede nell'esilarante l'essenza del macabro, e viceversa.
Straordinaria è la messa in scena, nella prima parte, di uno dei temi teorici di sapor Baziniano che riflette sull'essenza stessa del cinema: l'istante qualitativo.
Il desiderio di uno dei pazienti è quello di morire facendo l'amore. Eccoci qui: orgasmo e morte convergono all'interno della stessa immagine. Oltre mezzo secolo fa Andrè Bazin, padre fondatore della nouvelle vague francese, scriveva parole meravigliose riguardo all'atto sessuale e alla morte: "L'uno e l'altro sono alla loro maniera la negazione assoluta del tempo oggettivo: l'istante qualitativo allo stato puro". Questi due unici istanti qualitativi convivono nella medesima stanza e nel medesimo (a)tempo all'interno della medesima immagine, che riesce comunque ad essere leggera e briosa, non cadendo in quell'ostentazione pregna di apparati teorici che l'avrebbe resa pedante e didascalica. Non è un caso che in francese orgasmo si dica " Petit meurt". Continuava Bazin: "Come la morte, l'amore si vive e non si rappresenta o almeno non lo si rappresenta senza violazione della sua natura. Questa violazione si chiama oscenità". Applichiamo dunque la definizione baziniana di oscenità alla struttura del film di Olias Barco: non solo le due oscenità, morale e metafisica, vengono riprodotte nello stesso istante, ma vengono immerse in un clima di totale normalità e leggerezza.
L'osceno baziniano inserito in un'orizzonte di normalità non può che creare l'assurdo, che qui si declina una vera e propria legittimazione dell'oscenità. Ma siamo solo all'inizio. All'interno dell'ossimoro numero uno, l'assurdo normale, succede che, nel secondo tempo del film, ci sia una straordinaria virata che porta all'autentico non-sense - ennesimo ossimoro dell'assurdo. Dunque la tesi di Barco è straordinariamente matematica e paradossalmente logica, e la formula si articola in due fasi:

FASE 1: Osceno + Normalità: Assurdo.
FASE 2: Assurdo + Legittimazione dell'oscenità: Non-Sense.

Immagini-pensiero in caduta libera.
E' una pioggia " Kill me please", una pioggia di bianchi e di neri, di morte e - soprattutto - di vita. Nel mondo dell'assurdo i mariti perdono le mogli a poker e si fa a gara a morir per primi. Ma l'assurdo siamo noi.Proprio per questo è normale.