giovedì 29 dicembre 2011

2011 - Sotto il segno della fine



A pochi giorni dalla fine dell'anno eccomi a fare un bilancio delle visioni di questo 2011 cinematografico. Per chi scrive si tratta di un'annata folgorante. Ho avuto l'impressione che alcuni film si inseguissero, si guardassero, si rispondessero perfino. Il tema apocalittico della Fine non è mai stato così forte. Mi è sembrato che "The Tree of life", "Melancholia" e "Faust" comunicassero tra loro. Son film diversissimi, per carità, eppure sono così vicini. Poi ho visto "Il cavallo di Torino". Era come se un percorso casuale e indeterminato stesse prendendo una forma. Non è questa la sede per analizzare i quattro film, i rimandi, le assonanze, le totali divergenze (di pensiero, di forma, di visioni) ma è sorprendente che siano usciti nello stesso anno, che si siano scontrati/incrociati. Che abbiano cinematograficamente dialogato. Sarei curioso di vedere anche l'ultimo film di Abel Ferrara a riguardo, che con la fine del mondo c'entra non poco.
Non si può non essere grati, dunque, a un'annata che ha offerto film così importanti. Il valore fondativo di "The Tree of Life" è inestimabile. Aver sentito il sudiciume del "Faust" in sala è qualcosa di irraccontabile. In direzioni diverse si muovono Refn e Kaurismaki, cantori lontani ma vicini di un cinema che rivendica il suo statuto illusorio.
E gli Italiani? Ormai disgustato da un produzione meanstream nazionale imbarazzante, ho incluso nella classifica il bellissimo esordio "Corpo celeste". Davanti a una produzione nazionale tanto modesta, "Corpo celeste" è un urlo di speranza necessario. Comunque sia penso che il panorama più interessante per il cinema italiano odierno sia il documentario. Segnalerei qui, anche se non l'ho incluso nella playlist, il talentuoso Pietro Marcello che dopo l'ottimo "La bocca del lupo" ha girato "Il silenzio di Pelesjan", bellissimo documentario sul grande regista Armeno (troppo spesso dimenticato).



Nella playlist, purtroppo, non trovano spazio alcuni film usciti nel 2011 che, almeno qui, vorrei segnalare: il caustico kammerspiel "Carnage" di Roman Polanski; il contagioso "A dangerous method" dove Cronenberg teorizza la sua intera filmografia; il buon "13 Assassini" del poliedrico Takashi Miike, ma anche il disperante e ambiguo "Arirang" di Kim Ki Duk e il riuscito "Poetry" di Lee Chang Dong; Wim Wenders e il suo "Pina 3D" che dimostra come il 3D, se in mano a un vero Autore, possa essere un buono strumento; tra gli altri menzioni particolari a "Ladri di cadaveri" ennesimo gioiellino del grande John Landis. Infine, visto una settimana fa, il buon "Le idi di Marzo" che conferma le capacità di Clooney regista (e ha un cast in stato di grazia). E di fronte alle poche delusioni cocenti di quest'anno (vedi il pessimo "This must be the place" di Sorrentino, il mediocre "Cigno nero" di Aronofsky, l'imprenditoriale "Le avventure di Tin Tin" di Spielberg e, sebbene sarò bacchettato a vita, "Herafter" di Eastwood) lascio spazio agli otto grandi film che ho scelto per la playlist.

p.s. purtroppo non ho avuto modo di vedere "Una separazione" di cui ho letto molto bene, e l'ultimo documentario del mio amato Herzog, "The cave of forgotten dreams". Probabilmente sarebbero potuti finire in playlist...



* The Tree of Life
Perché è come vedere per la prima volta.
Perché a reinventare il cinema è il cinema stesso e non i suoi accessori.
Perché è imperfetto come solo le cose grandi lo sono: un meteorite si schianta contro la terra; il dolore di una perdita sul volto di una madre.
Alla violenza come evoluzione Malick preferisce l'amore: la scena dei dinosauri come risposta all'apologo sulle scimmie di memoria Kubrickiana. Con un caleidoscopio sinfonico di immagini di rara bellezza Malick inneggia alla vita, dall'origine del mondo fino alla fine dei tempi. E nel buio della sala ti scopri a piangere.

* Faust
Non è secondo a nessuno (si trova in questa posizione solo per obbligo di playlist). Ma non è nemmeno comparabile a nessuno. Faust è un film-mondo, di una grandezza sconvolgente, di un'apertura asfittica e, dunque, ossimorica. Di un lerciume avvolgente. E' un homunculus che respira. E' un mostro ipertrofico che cresce nella mente: più passa il tempo e più avvolge/sconvolge il ricordo. Potente come mai, Sokurov chiude la sua tetralogia. Ma il miracolo vero lo fa con il tempo: come pochi, pochissimi registi nella storia del cinema, reinventa il tempo, lo "scolpisce", lo blocca, lo manipola, lo seda, lo plasma come fosse materia. Istanti irradiati di luce, sguardi epifanici, e scimmie sulla luna. Il Male non è mai stato così spaventosamente banale.

* Melancholia
Perché ho visto tanti film dell'orrore in vita mia ma durante "Melancholia" ero terrorizzato. La fine arriva in un istante. L'angoscia è un'agonia che dura per tutta la vita. Von Trier rintraccia nella depressione lo stadio privilegiato per il sentore della fine. Un prologo di incredibili tableaux vivants e poi quella festa di matrimonio che è già, a tutti gli effetti, la fine del mondo. Melancholia si è già schiantato là, nello sguardo inquieto e perduto di Kirsten Dunst, mentre balla, mentre urina, mentre scopa in un giardino DeChirichiano. E alla fine? Il cinema. La grotta magica.



* Drive
Per il coraggio. Per l'amore devoto, incondizionato, fedele e coerente nei confronti del cinema. Perché in un mondo che ha scordato le differenze tra vero e verosimile, Refn ha la sfacciataggine di credere nel cinema. Il ralenti in ascensore, quando Gosling bacia la bellissima Carey Mullighan, con la luce delle grandi storie d'amore. E poi la violenza come deflagrazione improvvisa e roboante dell'immagine. E così, sedotto dalle forme, nelle ombre scopri un cuore, nelle automobili un'anima, nella violenza un corpo. Fatale, come lo sguardo del Driver.

* Miracolo a Le Havre
Perché, seppur siano film diversissimi, lo ho amato per le stesse ragioni di "Drive": la rivincita del cinema nei confronti della realtà. Cantore coraggioso e sublime, Kaurismaki va in totale controtendenza, inventa un finale poetico e impossibile dove, finalmente, qualcuno ritorna a credere nell'uomo. Kaurismaki non emula la realtà, ne inventa semplicemente una nuova, dominata da altre leggi e pulsioni, più liete e chapliniane, più eccentriche e colorate. Cinema allo stato puro.

* Il ragazzo con la bicicletta & Corpo celeste
Perché i fratelli Dardenne sono gli unici eredi di Robert Bresson: cinema essenziale, ascetico e straordinario. Con una messa in scena di una sobrietà commovente, trovano anche il loro lieto fine.
Dall'altra parte c'è "Corpo celeste" che, a mio avviso, è il migliore esordio Italiano degli ultimi anni. E' un film di sguardi e di silenzi. La Rohrwacher con un solo film dimostra di avere più talento, più sensibilità, più amore rispetto alla maggior parte dei nostri registi (o presunti tali). E con la sequenza dei gatti filma una scena di (in)visibile crudeltà cinematografica.

* Cavallo di Torino
Béla Tarr firma il suo film definitivo. Non il più bello, ma quello finale. Necessariamente finale. Nell'anno delle apocalissi, di Melancholia, di The Tree of Life e di Faust, il quarto sguardo sulla fine è firmato da uno dei più grandi Autori viventi: la fine del mondo è la reiterazione graduale, l'eternamente identico, il riciclo dell'uguale. Se Sokurov reinventa il tempo, Tarr avvolge il suo film con anelli di vento e crea un'esperienza straordinariamente ipnagogica: "Il cavallo di Torino" si staglia nella mente come un fantasma minaccioso e invalido, che vive non vite tra il sonno e la veglia. Oltre la ragione c'è l'abisso. Ma l'abisso non è la fine, solo la ripetizione continua e costante del quotidiano.