domenica 28 aprile 2013

L'occhio destro della luna tra le streghe di Salem




Ritorna in continuazione il razzo nell'occhio destro della luna. "Proiettile" in grado di bucare ancora oggi lo sguardo e d'invadere l'occhio: immagine identitaria del cinema stesso che apre un varco enorme e labirintico, che parte per l'appunto da Meliès e arriva adesso perfino a Rob Zombie. Quella gigantografia che compare (e inquieta) in "Le streghe di Salem" non può essere solo scenografica. Mi pare invece una delle chiavi di volta di "Le streghe di Salem": la sala cinematografica diviene ora la cattedrale barocca (in uno specchio ribaltato) di orgiastiche e malefiche visioni. L'occhio della luna è stato trafitto, bisogna aderire a un altro sguardo. Ecco dunque l'Incubo che vacilla, memore di inquilini del terzo piano e di quella magnifica ossessione che ha irradiato l'horror più malsano e i fantasmi di Carpenteriana memoria. Terribile, bello e ridicolo, debordante e personalissimo allo stesso tempo, sono ancora incapace di giudicare "Le streghe di Salem", dico solo che le sue immagini rimangono, eccome se rimangono.


giovedì 25 aprile 2013

Una storia che continua...
"Dans la maison"




Alla vita una narrazione, alla famiglia un teorema, allo sguardo una formula, al pensiero una parola, alla scrittura una grammatica, alla solitudine un’intrusione.
Germain, docente di letteratura presso il liceo Flaubert, viene piacevolmente sorpreso dalla qualità inaspettata di un tema di un suo studente, il sedicenne solitario Rapha. Il ragazzo racconta la sua prima visita nell’abitazione borghese del suo migliore amico, descrivendo i rapporti di una famiglia ferita sotto le superfici lucenti di un sorriso o di un bel quadro appeso al muro. Ciò che maggiormente colpisce Germain è la scritta “continua…” che appare alla fine del tema. Il docente stimolerà Rapha a scrivere ancora della famiglia e l'esercizio iniziale si trasformerà in una pericolosa ed ossessiva intrusione scopica nella vita degli altri.
In “Dans la maison” le superfici che continua a filmare François Ozon sono riflettenti più che mai: reiterando il suo gesto filmico – e svelando il meccanismo narrativo – trasforma una commedia nera declinata come un thriller in un film-saggio sulle possibilità della narrazione, sulla reversibilità delle storie e la loro essenza intimamente matematica. Ecco allora che si entra in un circolo di ambiguità e di sospetti, in una falla nella distanza che intercorre tra lo sguardo e l’immaginazione. Perché qui guardare, o meglio spiare, è soprattutto immaginare (e poi scrivere): nascosta, invisibile, la pulsione scopica ritorna ma mette in crisi lo stesso atto di guardare con i propri occhi. Non che ci siano macchine o protesi a separare l’occhio dalla sua vittima, ma è lo sguardo stesso a non essere più affidabile, a vedere suicidi immaginari e a essere continuamente messo in dubbio dalla mente (e dall’immaginazione). Rapha, il talentuoso ragazzo protagonista, è l’ ennesimo ospite inatteso di Pasoliniana memoria (ogni riferimento, tra l’altro, è immediatamente confessato dalle parole del suo professore). La materia vivente che osserva è plasmabile, ricostruibile in ogni suo scritto, tra le righe di quel “continua…” che rende sempre più labile la divisione binaria tra vita e scrittura.


La storia pare procedere come nella migliore tradizione del cinema Alleniano che racconta i propri personaggi con uno humour acido ed irresistibile: ma in questo Woody Allen d’oltralpe si intromettono, gradualmente, elementi di profonda inquietudine. Come vedremo nella straordinaria, tanto Hitchcockiana quando Zbigiana ultima inquadratura, il mondo è una finestra (o mille finestre) sul cortile: tutto è narrazione, la “realtà” è pronta ad essere modellata, ingannata, caricata, sovvertita (ma mai rispettata, aggiungerei). La mente, famelica e onnivora, ricostruisce ogni evento, ma anche ogni sguardo e ogni piccolo gesto, in dieci, cento, mille potenziali narrazioni, edificando storie su storie per sentirsi meno sola. E in questo gioco dello sguardo la vittima sarà il professor Germain stesso, vero interesse del mondo reale ed immaginario (ma poi c’è una differenza?) di Rapha.
Se “Holy Motors” cantava, vagante e nostalgico, la fine di ogni narrazione, “Dans la maison”, che si muove su binari ambigui, quelli labili che separano la realtà dalla fantasia, racconta un mondo, malato di solitudine, che si è ormai fatto storia.

domenica 14 aprile 2013

Nel dolore di un videoclip anneghiamo: "Spring Breakers"




Quattro studentesse universitarie decidono di rapinare un fast food per pagarsi lo spring break, festa ininterrotta tra fiumi d’alcool e cocaina, fumate di crack e orge di corpi in bikini. Assisti a “Spring Breakers” come si può assistere a un caleidoscopio d’immagini proiettate su una superficie piatta: tette, culi, macchine da corsa, pistole e cocaina improvvisamente si ritorcono in se stessi annegando in un magma dolente di cinema infranto. Opera scevra di qualsiasi tipo di moralismo, nel suo mostrare tutto e mai dimostrare, entra in un corto-circuito ambiguo e dilaniante: accanto alla repulsione ideologica nasce un improvviso senso di eccitazione e fascinazione. Come un videogioco che ha lo spiacevole ma straordinario obiettivo di mettere fuori posto lo spettatore, in un disagio percettivo e teorico prima che morale. Nel suo richiamare l’estetica “bassa”, quella del web e di mtv, produce un oggetto filmico lisergico, inclassificato e inclassificabile: videoclip ampliato e debordante, che ha perso ogni possibilità di contenimento, che avvolge la “realtà” disintegrandola in mille pezzetti e ripetizioni.
Manifesto d’attualità sconcertante su una trasformazione del mondo ormai già avvenuta: il “delitto perfetto” è stata la morte della “realtà” e l’incursione di un virtuale sempre più iperrealistico (delitto che, ovviamente, coincide con la morte stessa della morale). Questa patina non può riprodurre un atto sessuale, ma può limitarsi solo a mimarlo in un’estasi di corpi che sembrano più manichini in bikini che persone in carne e ossa.



La narrazione pare dissolversi all’interno del frammento in costanti meccaniche e inumane: la reiterazione delle azioni, delle inquadrature e dei dialoghi, trasforma fin dall’inizio le azioni in opzioni controllate di un videogioco, in cui i personaggi sono ridotti a comandi di un joystic. Da questo punto di vista il film di Harmony Korine si presenta subito come uno dei titoli più apocalittici e teorici degli ultimi anni: non c’è nulla di più doloroso e catastrofico di filmare il nulla. Perfino il personaggio di Alien, spacciatore e trafficante d’armi interpretato dall’ottimo James Franco, pare una figura fuori posto, quasi il cattivo ragazzo debitore di “Scarface”: ormai, di fronte alla virtualità delle figlie ribelli di Topolino, è uno scarto romantico e “alienato”.
E mentre James Franco suona e canta “Everytime” nel nome della “divina” Britney Spears, il sole pare tramontare solo per regalarci l’immagine di una cartolina ben studiata. Perfino il cielo è diventato pop mentre prendiamo atto di come l’immaginario virtuale si sia fatto ormai onnivoro e onnicomprensivo: avanza ipertrofico in ralenti estenuanti mentre si espande dappertutto, conscio che ogni immagine è il breve istante di una ricezione distratta sempre destinata a svanire. Quello che ne viene fuori è un capolavoro abissale di narrazione svuotata: deflagrando nel dolore di un videoclip che non finisce, anneghiamo.

martedì 2 aprile 2013

Ricordi la pioggia incessante di Giugno?
"A Snake of June" di Shinya Tsukamoto




Ricordi la pioggia incessante di giugno,
e quel bianco e nero virato in blu?

Ricordi quella storia d'amore
che appassisce e già rinasce
per via del sesso, della malattia e del dolore?

E ricordi quella spietata macchina della verità,
che pure guarda e piange,
e non può fare a meno di ribadire
che guardare è conoscere e soffrire
ma è anche amare?

Ama l'occhio, sembra dire Tsukamoto
ama l'obiettivo
ama la macchina
ama il corpo
ama la pelle
e, soprattutto, ama la città (che noi siamo)

Come serpenti di giugno
viviamo e liberiamo
nelle metastasi di un mondo incancrenito




Abbiamo perso consapevolezza del corpo e della carne, abbiamo esteso la nostra pelle per intere metropoli, ma continuiamo ad avere paura.

Tsukamoto è il padre di un cinema che riprende coscienza del proprio corpo e porta avanti un discorso meravigliosamente teorico sulla malattia, sul cancro come morbo ipertrofico di un'intera società.
E in "A Snake of June" c'è spazio perfino per una luce, per un nuovo romanticismo (una nuova verità) all'insegna della mutilazione e del dolore.