sabato 4 ottobre 2014

Ogni eccesso è vuoto
ogni chiasso è silenzio:
L'Imperatrice Caterina




Come un diamante eccessivo e barocco, come un castello opulento e maestoso, come una donna sensuale e provocante che s'inebria di scabroso erotismo, così mi pare ogni singola inquadratura de "L'imperatrice Caterina" di Josef Von Sternberg. L'opera cinematografica che, più di tutte, è stata condannata dalla sua stessa audacia, dalla sua medesima, innegabile magniloquenza. La perfezione sfavillante del set, dei costumi, delle scenografie umbratili che fanno coda all'espressionismo, i movimenti di macchina, tutto si unisce in quella danza caotica e infernale, in quella giostra eccessiva e notturna, in quella festa sensualissima che è "L'imperatrice Caterina".
La seduzione visiva delle immagini diventa per Sternberg quasi un'ossessione, una follia ulteriore, una potenza distruttrice in grado di colpire persone, oggetti e pareti, finendo per ferire e umiliare personaggi e pubblico. Può un'immagine eccitare e liberare dal sonno lo spettatore, respingendo qualsiasi ipotesi catartica, a favore di un cinema che agisca sul nostro organismo? Che lo risvegli?
Sprofondando in uno straordinario kitsch ante-litteram, ci si chiede: non è d'altronde il kitsch l'incubo del bello e del suntuoso, la sua deformazione parossistica, la sua magnetica (e caduca) perversione? "L'imperatrice Caterina" è un film condannato all'oblio, lontano anni luce dall'essere catalogato in qualsiasi accademica, didascalica storia del cinema. Ma ne è cosciente fin dal primo momento, perché tutto in questo film grida a squarciagola che non vuole diventare un classico. E' troppo scorretto, vivo e sporco, per essere imbalsamato.
Il masochismo sternberghiano dei triangoli a tre e dei "diavoli probabilmente" si proietta qui sulla Storia. Ma quale Storia? Una Storia che diviene la sua stessa consapevole messa in scena: l'ombra deforme e seducente del cinema si proietta sul corso delle cose, in una lotta colorata di oro. La Storia deforme di Sternberg si apre agli squarci visionari di una festa presieduta da Dioniso in persona.



Ogni primo piano della divina Marlene corrisponde a una geografia interiore, a uno scavo nel profondo che attrae sfuggendo: lei è la diva della distanza assoluta, l'idolo da amare senza mai poter possedere, quasi un totem in carne e ossa che si lancia in movimenti di iconica bellezza. Ed è lei, con i suoi occhi, la sua bocca, la sua espressione algida e cristallizzata, a incantarci come fossimo burattini alla corte del mondo, gettandoci in trances lunghe un film. Sternberg, Pigmalione per eccellenza della storia del cinema, modellava, disegnava, odiava, e pur sempre amava, una donna che gli sarebbe sfuggita per sempre.
Se la condanna del desiderio è la solitudine, mi pare che "L'imperatrice Caterina", spogliato di ogni abito lussureggiante, di ogni sfavillio della forma, di ogni gonfia scenografia, sia inaspettatamente una delle opere sternberghiane che più ci mette a contatto con la solitudine. Ogni eccesso è vuoto, ogni chiasso è silenzio. Le maschere, d'altronde, conservano sempre il potere ammaliante degli occhi, che non possono negare o nascondere. E quegli occhi sono la verità della scena, l'unico elemente saldo, umanissimo (e dunque crudelissimo) de "L'imperatrice Caterina".
La grandezza di Von Sternberg è tutta lì: nell'infischiarsene di qualsiasi verosimiglianza storica, nel ricostruire gli elementi e nel trasfigurare ogni potenziale realtà nel magma cinematografico che tutto plasma e tutto reinventa.

post scriptum: guardatelo bene, avvicinatevi, sembra proprio che questo bianco e nero nasconda, in sé, il più colorato di tutti i film!



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