lunedì 15 dicembre 2014

Mommy di Xavier Dolan




Autodidatta fieramente lontano dalla figura del cinefilo snob che si potrebbe immaginare, Xavier Dolan continua il suo percorso registico con "Mommy".
Quello che si vede sullo schermo è un caleidoscopio di immagini internate, soffocate all'interno del formato quadrato 1:1, che fa sentire tutto il peso di ogni gesto filmico.
Asfissiante nel suo deambulare ossessivo tra interni ed esterni, "Mommy" è cinema di pura, fragilissima potenza, in grado di raccontare un doppio morboso: una relazione madre-figlio che segue sempre la stessa dinamica, orfana di qualsiasi idea di vero riscatto, completamente incapace di guardare oltre da sé e rendersi conto che, al di fuori, c'è il mondo intero. Si aggiunge anche una terza, affascinante figura, che chiude ermeticamente un triangolo che sfugge all'esterno. Come un'isola (in)felice, immortalata da uno scatto che vorrebbe, ma non può, fermare il tempo.
"Mommy" dà l'impressione che il resto della gente, la realtà stessa, sia un fuoricampo forzato, incapace di entrare all'interno dell'immagine monadica, ristrettissima del trio. Questo mi pare uno dei punti di maggior interesse del film: la vita pullulante di emozioni, desideri, rabbia e ardori, dev'essere continuamente salvaguardata e difesa dal mondo circostante. E' come se Dolan volesse mettere in salvo il cinema e le sue ossessioni, con il bisogno assoluto di controllare pochi personaggi, di amarli perfino nei loro momenti più bassi: sfoca le immagini, circumnaviga il set, poi si ferma immortalando un gesto, una lacrima o un sorriso, e di nuovo comincia a muoversi.



La sua è la furia impazzita che appartiene a chi crea e distrugge immaginari con un solo colpo d'occhio. Ma è una furia gentile e umanissima, in grado di accarezzare i suoi personaggi nelle loro debolezze, idiosincrasie, in tutte le crisi reiterate - sempre uguali, sempre eccedenti, sempre sopra le righe - che li fanno cadere (per poi rialzarsi). In definitiva, "Mommy" è la più aperta delle opere chiuse: vuol bene al suo spettatore, lo fa sentire "uno di loro" (e mai il giudice di una serie di freaks). Dolan trascina gli occhi del pubblico direttamente nel cuore della scena, moltiplica i climax con un tale ardore da svuotarli: con far forsennato, irresponsabile e vitalissimo, porta avanti un film di puro, folgorante vitalismo, seppur racconti una relazione cieca e beffarda, che se infischia di tutto il resto.
Una volta compresso lo schermo fino alla claustrofobia, lo allarga improvvisamente urlando tutta la sua incosciente, agognatissima libertà. Lo spettatore torna a respirare, mentre davanti ai suoi occhi si alternano le immagini di un futuro ipotetico, una sorta di what if impossibile sommerso nella patina edificante dei sogni (un film nel film di chi mira l'impossibile).
Nel suo commistionare musichette pop, operazioni revival, drammi da camera e perfino un po' di (in)sana fantascienza emotiva, "Mommy" è un film che vibra, che pulsa, che ferisce e che diverte, perché è così selvaggiamente sfrenato da sedurre e inebriare come pochi. Forse è perfino un po' arrogante, ma con la voce salda di chi col cinema vorrebbe far esplodere i palazzi (per ricostruirli poi, per amor di gioventù, per sbornia di vita).

Allenismi (Magic in the Moonlight)




Era stato il bellissimo "Blue Jasmine" a farmi riappacificare con il cinema di Woody Allen, che, a parte qualche rara eccezione ("Sogni e delitti"), non riusciva più a conquistarmi fin dai tempi di "Harry a pezzi".
La sensazione che avevo vedendo "Magic in the Moonlight" era quella rassicurante di un rientro nella pura, consueta quotidianità (o meglio annualità) tardoalleniana. Scrivo rassicurante perché mi pare che, sempre di più, il cinismo, l'irriverenza e la potenza stessa del cinema di Woody Allen finiscano ormai per museificarsi, cristallizzandosi nelle figurine statiche di un cinema sempre uguale a se stesso, troppo sciapo e vetusto per poter battere ancora qualche colpo. Il conflitto tra ragione e irrazionalità (ancora!) tra illuminismo e occulto, è riproposto con la stanchezza programmatica di chi arriva sempre alle stesse conclusioni, di chi non si smuove di un millimetro dalle proprie convenzioni (e dalla propria maniera). E' un cinema rassicurante perché privo di sorprese, talmente prevedibile da essere perfino addomesticabile. Anche gli attori, allenizzati fino al midollo, perdono la loro credibilità: il buon Colin Firth è un burattino nelle mani del suo autore che utilizza tutto il repertorio possibile di faccette da commedia, Emma Stone sembra continuamente spaesata e fuori posto. Allen strappa qualche solito sorriso, per consumarsi poi in quel "basta che funzioni" che sembra la morale di gran parte del suo cinema degli ultimi quindici anni. Che la vita non abbia senso, ma non sia del tutto priva di magia, è il modesto traguardo di chi ha già chiuso nel cassetto tutto il vero dolore, i risentimenti e le acerbità della straordinaria Jasmine, ultima grande figura del cinema alleniano.



(il fatto stesso che vedendo un film di Woody Allen mi ritrovi a dire "sì, però che bella la fotografia" non mi pare affatto un buon segno).

Prime impressioni di postvisione:
Jauja di Lisandro Alonso




In attesa di poterlo rivedere e di scriverne qualcosa, mi perdo nelle dissolvenze spazio-temporali che abitano le immagini di Jauja. Per tutta la notte ho riassorbito e trasfigurato lo straordinario film di Alonso e forte era l'impressione che ogni frame (ogni quadro, dovrei dire) si alterava, cresceva all'interno del mio sonno, minuto dopo minuto. Quasi come se fossi capitato in un zona di stalkeriana memoria o dalle parti terminali di Solaris. L'oggetto filmico di Alonso ci guarda mentre erra lungo paesaggi desertici. E noi, che dell'erranza abbiamo fatto un piano della mente, ricambiamo lo sguardo - o almeno tentiamo.

giovedì 4 dicembre 2014

Non piangere, canta!
Deflagrazioni lynchiane e cuori selvaggi


(io ogni tanto devo necessariamente tornare a cuore selvaggio, non perché sia il mio lynch preferito, ma perché è quello che più di tutti potrei rivedere all'infinito)



Cantare "Love me Tender" a Lula sul cofano di una macchina, dopo aver incontrato la fata buona, come nella più romantica delle storie d'amore. E con la giacca di pelle di serpente, che simboleggia la sua individualità e la sua fede nella libertà personale, Sailor è puro, invincibile, ROCK.

(Cuore Selvaggio è il film che non ti stanchi mai di vedere, perché ci sono streghe e fate, il ghigno di Willem Dafoe e le sigarette fumate dalla Rossellini, perché Laura Dern urla "Sailor" a squarciagola, perché Harry Dean Stanton abbiaia davanti alla televisione, perché il cugino Dell si infila gli scarafaggi nell'ano e quella strega di Marietta si ricopre la faccia di rossetto. E poi Nick Cage... Nick Cage che ammazza di botte quel tizio in un incipit di rara, esilarante, estatica violenza, ma poi balla, invoca Elvis, beve e scopa. Ancora, ROCK!)

"Questo mondo ha un cuore selvaggio e del tutto incomprensibile": deflagrazione pura, specchio deforme del Mago di Oz, l'immagine non è mai ciò che sembra, perché sfugge a se stessa, si dissolve tra una sigaretta e l'altra, mentre una casa brucia e le strade si rivelano (già) perdute. Solo allora Bobby Peru potrà dire "non piangere, canta!", anche se poi la sua testa salterà in aria.



p.s. mi commuove sempre immaginare Bertolucci in estasi davanti alle immagini di Lynch, che si batte per fargli avere la sua indiscutibile palma d'oro.

Bellas Mariposas di Salvatore Mereu




Rinascite sarde.
Sguardi che s'incrociano, senza poi grandi speranze o ambizioni, perché è finito il tempo in cui si poteva essere bambini. Questo è il cinema italiano che amo, quello che va difeso e stimato perché fatto per strada, consapevole della sua urgenza e della sua necessità, cosciente che il cinema sia prima di tutto una questione di linguaggio (cosa che tanti prodottini italiani dimenticano, non capendo che la loro difficoltà maggiore non sia tanto nei contenuti quanto nella gestione della forma). Siamo in territori scevri da qualsiasi tipo di moralismo, furbizia o ipocrisia: Mereu racconta il mondo (la provincia di Cagliari) ad altezza occhi di Cate, ragazzina di undici anni, autentico sguardo-affezione del film (ha ragione chi lo definisce un film in soggettiva). Film che poi è un fiume di parole inutili che sgorgano in piena pubertà. Opera autentica, spontanea, immediata, dove non succede nulla che non sia semplicemente vivere. Vale la pena raccontare tutto, come in una fiera del nulla tra spiagge, palazzoni e streghe.
Un momento, che scorre via veloce ma scalda come pochi. Un istante appena sul letto, dove incrociare gli sguardi, ridere, baciarsi sulle labbra, labbra che sembrano farfalle, belle farfalle...

Be Kind Rewind
Dove vincono i sogni

«Qui siamo nel West, dove se la leggenda diventa realtà, vince la leggenda» da "L'uomo che uccise Liberty Valance" di John Ford.



Che poi il West fosse il cinema mi è sempre parso chiaro.
Si sono scritte migliaia di pagine sulla fabbrica delle illusioni, sulla sospensione d'incredulità, sul potere dell'immaginario: sul cinema e sulla sua grande illusione. Ma soprattutto sono stati girati tanti film sulla meraviglia del sogno, sulla settima arte stessa che svela meccanismi e magie. Ma io vorrei soffermarmi su quel piccolo atto d'amore, irriverente e scanzonato, che è "Be Kind Rewind" di Michel Gondry. Perché è la storia di chi cerca di proteggere il cinema (e l'immaginario) da chiunque se lo voglia portare via, di chi caparbio, impettito e testardo resisteva alla videocassetta perché non era una questione di qualità ma di memoria analogica.
Lo spunto del film - tutto teorico - rimane geniale: quando le videocassette di una storica videoteca si smagnetizzano non rimarrà altro da fare che rigirare i classici della storia del cinema. Non c'è uno stralcio di ruffianeria in tutto questo, ma l'atto d'amore di chi ha sempre sognato un cinema tutto per sè, da vedere e condividere, da dirigere e recitare. Nella fede che al cinema - solo al cinema, almeno al cinema - alla fine vincano i sogni, mentre la realtà può anche aspettare fuori dalla sala.

Il cielo sinistro di "A serious man"




E poi, guardando quel cielo sinistro, presagio di una catastrofe ancora più grande, "A Serious man" si configura come c crudele "commedia" della vita, parabola terribile a cui è destinata ogni esistenza: l'ebreo onesto prosegue il suo cammino insidioso, affrontando sciagure e malintesi, vivendo nel silenzio di Dio, in una realtà inevitabilmente deformata e grottesca. Il protagonista, ennesimo "idiota" perbene, uomo serio e probo, viene travolto dal ciclone. Nessuna ragione, il non-sense rimane l'unica religione del mondo: cinema cinico, beffardo e terribilmente ironico, i Coen non lasciano scampo filmando un altro dei loro incredibili manifesti e lasciando allo splendido prologo la chiave di lettura dell'intero film.

Quinto potere: la "cosa" di Lumet




Network ovvero come la televisione divenne il quinto potere: una sorta di "cosa", come la creatura carpenteriana, viva, mutante, pullulante di energie, capace di succhiare il nostro sangue alla stregua di un vampiro (è nato un nuovo organo nel cervello, si sarebbe affermato poi in "Videodrome": lo schermo!). Questa "cosa" vive ogni giorno, insieme a noi, davanti a noi, dentro di noi, mentre elegge nuovi guru e profeti, nuove strade e possibilità catodiche. Sembrava fantascienza d'annata, invece Sidney Lumet firma con "Network - Quinto potere" un film straordinariamente in anticipo sui tempi, su come la televisione sia stata in grado di annientare tutto ciò che veniva prima (il famoso baudrillardiano "delitto perfetto" nei confronti della realtà), modificando per sempre la nostra percezione delle cose.

Il mondo è finito
Onora il padre e la madre




Il mondo è finito, anche se nessuno se n'è accorto.
Ciò che è venuto a mancare è l'ossigeno stesso, al suo posto è rimasto un insopportabile fetore. Gli ambienti si sono compressi a dismisura, l'umanità si è trovata internata in luoghi freddi, squallidi e asettici, cellule prive di qualsiasi personalità. La morale è solo l'eco lontana di chi non ha più un passato da ricordare: ogni sorriso, ogni gentilezza, ogni possibilità di luce si rivela ormai una chimera impossibile da raggiungere. Anche i colori hanno ceduto il passo al grigiume plumbeo che permea ogni cosa: nessuna trasparenza, nessuna onestà, ogni elemento scivola verso il suo retrofondo rozzo e vischioso. E la famiglia, nucleo portante della stabilità umana, nido caldo in cui potersi rifugiare, è divenuta il centro disfunzionale dell'umanità. Ciò che emana quest'unione è l'insopportabile tanfo di una pestilenza senza fine (portata sulle spalle del corpo untuoso e mai così viscido del gigantesco Philip Seymour Hoffman).
Questa famiglia stracciata, umiliata ed offesa, non può che disgregarsi al suo interno, pezzo dopo pezzo, ferita dopo ferita. Ogni segreto viene a galla, così come il circolo infinito di odi, bisogni e rancori che si susseguono senza tregua.



Stanze sudice, geografie putrefatte, teatri di posa di immondizie affettive, legami inverecondi e poi la scopata iniziale di chi, per un attimo, ricorda di essere ancora un uomo. Trovo "Onora e il padre e la madre" lo straordinario apologo che ruota, per tutta la sua durata, intorno al concetto stesso di osceno, radendo al suolo i tabù del borghesissimo buongusto. Ciò che ci restituisce è uno spiacevolissimo, residuale pus che diviene traccia dei legami affettivi di una volta.
Il testamento di Lumet è la crudele chiosa di una carriera che non era mai stata così feroce, così disillusa e, sopratutto, dolorosa. E' d'altronde il racconto di un virus che porta/ha portato/sta portando il mondo alla deriva, fino all'inaccettabile eccesso di rubare al proprio padre e uccidere il proprio figlio.
I comandamenti si sono invertiti, i rapporti umani hanno raggiunto l'acme della perversione morale riscoprendo la loro radice malata e omicida. Sidney Lumet firma un'opera asciutissima, che fa della sua sobrietà lo strumento ideale per tramortire gli occhi di guarda. E poi si spegne.

mercoledì 3 dicembre 2014

I miei vicini Yamada di Isao Takahata




Come in un manga in movimento, stilizzato ed essenziale fino al midollo, "I miei vicini Yamada" fa della bidimensionalità il suo cuore pulsante, mentre utilizza acquarelli per colorare ogni emozione. Il maestro Isao Takahata risponde alle esigenze di realizzare un'opera semplice, ascetica, in grado di illuminare (e, soprattutto, di bucare) la vita quotidiana con un piccolo gesto, qualcosa di buffo o superfluo, forse una speranza o un sogno o un pensiero del momento. Racconti episodici restituiscono un ritratto dell'eccentrica famiglia Yamada, senza preoccuparsi di una narrazione che investa l'intero film, di una consequenzialità tra un momento e l'altro: solo siparietti, piccole situazioni che iniziano e finiscono, ma che, nel loro accumularsi, restituiscono l'inevitabile succedersi di giorni, stagioni e fasi della vita famigliare.
"I miei vicini Yamada" mi pare costruito come un perfetto meccanismo di haiku eterogenei che si sfiorano e s'incontrano per scandire il (non) tempo del racconto. Le dolci parole dei poeti Bashō e Buson riportano il tutto a una dimensione più antica, quasi nel rimpianto di un Giappone che non c'è più o di un'altra vita: in questo rimpianto, sotterraneo, nascosto ma viscerale, si trova il senso dell'intero film.



Ogni momento della preziosa opera di Takahata, riesce a commistionare candore e malizia, passando, senza soluzione di continuità, dalla gentilezza al risentimento, dai sogni proibiti all'adolescenza, dalle prime cotte di gioventù all'inesorabile avanzare dell'età.
Sotto la superficie edificante di una famiglia che, compatta, può superare le insidie del mondo, si nasconde un film ben più amaro e desolante: emerge un senso di frustrazione, di impotenza, di inadeguatezza del singolo nei confronti di un Giappone che è sempre in movimento. Un Paese che non si ferma, che non può fermarsi, ma che ha lasciato i suoi singoli cittadini indietro: troppo lenti per non rivelarsi un peso, troppo goffi per non inciampare, troppo umani per velocità oltreumane.
Tutto dice che bisogna andare avanti, lavorare sodo, stringere i denti, tutto è training morale. Gli Yamada cercano di stare al passo con i tempi, ma non ce la fanno: dimenticano continuamente le cose, accumulano ritardi, non si svegliano la mattina, sono distratti e arrivano alla sera sfiniti.
Emerge un senso di nostalgia infinita, un sentirsi fuori tempo massimo che fa della timida commedia de "I miei vicini Yamada" il dramma pulsante sull'incompatibilità di un paese con i suoi cittadini.

Il piacere assoluto della visione
Billy Wilder




Mi rendo conto che forse sono i film di Billy Wilder gli unici in cui mi lascio trasportare completamente dal potere del racconto. Non penso ad altro se non a ciò che sto vedendo, senza alcuna dietrologia, senza alcun appunto o tecnicismo di troppo. Mi sento catturato, inebriato da ogni singolo incastro narrativo, e, in un secondo, tutto il mare di teoria, tutte le riflessioni, le elucubrazioni infinite, le scuole di pensiero saltano in aria. Ciò che rimane è il piacere assoluto di vedere un film, di lasciarsi coinvolgere, di sospendere l'incredulità per centoventi - dico centoventi! - minuti, di amare ciò che vedi, e ridere e piangere e in caso divertirsi un mondo. Dimentico la regia, la fotografia, la colonna sonora, non noto alcun movimento di macchina, alcun vezzo di montaggio, dimentico gli autori e le teorie, dimentico i libri, dimentico tutto: vedo ogni cosa insieme, totale ma mai totalizzante, quasi un corpo unico ricco di grazia e di brio, e mi scordo - oh sì, mi scordo - il cinema (nonostante i suoi film, soprattutto le commedie, presentino le costruzioni narrative più rigorose e puntigliose di tutto il cinema americano). Forse mi accade anche con Lubitsch o Capra, ma i film di Wilder contengono quell'ingrediente segreto che porta diretti verso il puro, appagante piacere della visione. Penso questo mentre rivedo per l'ennesima volta quel capolavoro assoluto che è "L'appartamento": mi sento felice come un bambino appena salito a bordo di una giostra, provo un entusiasmo, un'ingenuità, una soddisfazione sconsiderata che nessun cinema, perfino quello che amo di più, potrà mai restituirmi. E sto bene.

Miseria e spettacolo: Trash




E' arrivato in sala "Trash" di Stephen Daldry. In giro si parlava del "The Millionaire" dell'anno, cosa che mi aveva piuttosto terrorizzato ai tempi del festival di Roma. Di "The Millionaire" il film di Daldry conserva l'impostazione produttiva: prendere un regista piuttosto celebre e "gettarlo" nel terzo mondo. Dal film di Boyle recupera anche la problematica di ordine morale di trasformare la miseria in spettacolo, di gettarla all'interno di un calderone d'intrattenimento che, eticamente, può davvero infastidire.
Provando a chiudere un occhio (e non è detto che lo si voglia fare o sia giusto farlo) trovo "Trash" un'opera certo convenzionale ma anche sufficientemente riuscita. Sebbe non ami affatto il cinema di Daldry devo ammettere che qui si avverte un buon senso del ritmo, che si propaga per tutta la durata in modo davvero incalzante. Montaggio ferratissimo (ma non videoclipparo come si legge in giro) messa in scena completamente al servizio della materia trattata, scelte di casting azzeccate (i tre ragazzini protagonisti sono meravigliosi e finiscono per oscurare Martin Sheen e Rooney Mara). E' un film, del resto, profondamente (colpevolmente) spettacolare, invaso da tanta (troppa) musica, progettato a menadito per assecondare i gusti delle masse. Si può dunque criticare il tipo di operazione, la sua dubbia moralità, ma, all'interno dei suoi parametri, risulta innegabile che "Trash" sia un film che funzioni.
Riesce a evitare qualsiasi ruffianeria quasi fino alla fine, peccato solo per quegli insopportabili quindici minuti di coda: del resto la maledizione dei finali furbetti ed edulcorati, delle verbosità che vorrebbero "dire" il film quando le immagini ci sono già riuscite da sole, è cosa nota e piuttosto esecrabile. Imbarazzanti ragazze-fantasma e un manicheismo di fondo davvero insopportabile: ma d'altronde c'è da sorprendersene?

post scriptum: mi sorprende lo "scandalo" suscitato dalla sua vittoria al festival di Roma: con una giuria popolare e un'impostazione festivaleria di quel tipo, cosa ci si aspettava che vincesse?