venerdì 30 ottobre 2015

Carol di Todd Haynes




Che film magnifico "Carol" di Todd Haynes. Un'opera di riflessi, di sguardi e di mani, di campi tesi verso controcampi che il più delle volte non arrivano. L'eleganza formale di Haynes trattiene il film in moti tutti interiori per poi esplodere in un finale di rara potenza melò. Scalda il cuore nel suo essere un road-movie dell'anima, una giostra di sentimenti trattati con un rispetto, un garbo, un'umanità dilanianti. Rooney Mara, ancora più di Cate Blanchett, è l'occhio commosso, fragile e irrequieto del film, in grado di restituirne tutta la struggente delicatezza. Che è poi quella della storia d'amore che s'insinua lentamente in un lieve susseguirsi di sfioramenti, di tocchi, di evasioni impossibili. Ma soprattutto un atto di fede nei confronti di un cinema ancora capace di "lavorarci", di scoprirci, di toccare le nostre più intime corde. E, inaspettata, arriva una propensione di Haynes per l'astrazione delle forme, per le sfocature di un'immagine che, da sole, possono restituire tutti i segreti, tutti i misteri inestirpabili del sentimento. "Carol" è una perla da custodire gelosamente, come una vecchia canzone che abbiamo amato e che continua a tornarci alla mente. Come un ricordo che sfuma lievemente, senza appassire mai. E ritorna, eccome se ritorna...

domenica 25 ottobre 2015

Room di Lenny Abrahmson




Ennesimo filmetto indie americano che sembra confezionato appositamente per il Sundance. Se l'idea di partenza - quella di una madre e un figlio rinchiusi da anni all'interno di una stanza - era assai stimolante sulla carta, la regia non riesce nemmeno per un attimo a "sentire" il film e i suoi personaggi. Certo, quella del bambino non è claustrofobia, piuttosto un'infantile, immaginifica forma di claustrofilia, ma per metà film Abrahmson non è in grado di farci percepire il luogo fisico, di insistere sul legame tra spazio e personaggi (grave per quello che è, in gran parte, un vero e proprio kammerspiel). Tutta la messa in scena pare assolutamente illustrativa, priva di potenza, guizzi, di uno sguardo in grado di supportare un soggetto del genere. E quando finalmente usciamo fuori dalla stanza (e vorremmo ricominciare a respirare), "Room" si chiude ancora di più. Non c'è ossigeno, non c'è meraviglia, non c'è sorpresa: per consegnarci la visione virginale di un bambino che vede il mondo per la prima volta, Abrahmson realizza al massimo delle soggettive sfocate, depotenziando completamente qualsiasi epifania. Incapace di calarsi ad altezza-occhi di un bambino, lascia il sense of wonder alla parola, attribuendo la poetica del film alla voice over del piccolo protagonista. Una volta "nel mondo" (anche se questo mondo hai la sensazione che non arrivi mai veramente) "Room" devia, si blocca, scivola verso la retorica più fastidiosa, incerto com'è su quale direzione prendere. Arranca semplicemente, appiattendosi nell'opacità delle sue immagini.

Land of Mine di Martin Zandvliet




Alla fine della seconda guerra mondiale un gruppo di prigionieri tedeschi è costretto a disinnescare mine su una spiaggia danese. Zandvliet asseconda un soggetto davvero interessante, concependo un film che trova la sua grammatica nel montaggio mani-mina-volto, innescando così un grumo di suspense che regge bene per tutta la durata. Peccato che poi "Land of Mine" si trasformi in una grande occasione sprecata, prima di tutto da un punto di vista di scrittura. Se tutto il film punta sulla facile empatia con i giovanissimi prigionieri tedeschi, è il personaggio del sergente a non convincere affatto dal punto di vista psicologico. Passa da un estremo all'altro, con una gratuità che sembra davvero inspiegabile (dalla partita di calcio con i prigionieri, in cui è il sergente/padre buono, alla sequenza, davvero fastidiosa, in cui è il mostro che tratta uno dei ragazzini alla stregua di un cane). Come credere a un film che svela tutti le sue funzioni strutturali, i suoi motivi di scrittura, che si rivela finto, artefatto, ostinatamente costruito per piacere a tutti i costi? Un vero peccato, perché "Land of mine" conta diversi bei momenti, ma si perde nelle sue stesse insicurezze, affidandosi a mode registiche che più omologanti non si può: le riprese tentennanti, sempre a mano, anche quando desidereresti un minimo di stabilità; la musica pronta a sottolineare ogni umore dei personaggi; la color artefatta, desaturata dell'immagine. E così via...

Eva no duerme




In un festa, quella di Roma, praticamente priva di sorprese, arriva questo oggetto filmico misterioso ed affascinante. Aguero resuscita le pulsioni necrofile del cinema, costruisce un film dalla struttura dialettica con cui raccontare venticinque anni di peronismo. Un'opera seducente sedotta dagli occhi di un cadavere, quello di Eva Peron (la santa pagana), occhi che proiettano le immagini di una radiografia nazionale. Tra materiale di repertorio, voices over ipnotiche e follie centrifughe, tre episodi fondamentali scandiscono un quarto di secolo della storia argentina: storia di morti che scompaiono e ritornano, come a sancire i movimenti della storia. Aguero osa, inventa, destruttura, avanza soluzioni visive spesso impressionanti, si lascia attrarre dalla pulsione animalesca dei corpi (il piano-sequenza, pazzesco, con Denis Lavant), per poi "spegnere" progressivamente le sue immagini perturbanti. E alla fine tutto "Eva no duerme" sprofonda nel rosso saturo di una Storia implosa nel colore.

venerdì 9 ottobre 2015

Se The Martian è Matt Damon...




Al servizio di una buona sceneggiatura, Ridley Scott non può che confermare il suo strepitoso talento visivo. "The Martian" è in fin dei conti una riuscitissima commedia fantascientifica, un Cast Away su Marte che trova tutta la sua forza nel non prendersi mai completamente sul serio (più osa, senza paura del ridicolo, più funziona).
Ho apprezzato subito il tocco leggero del film, l'essere in tutto e per tutto un'opera che riflette sugli schermi, sulle modalità di comunicazione, sulle possibilità della rete (il "villaggio globale" non si ferma alla Terra, ma arriva perfino su Marte). In fin dei conti il Wilson di turno altri non è che lo schermo attraverso cui confessarsi: bisogna parlare alla propria stessa immagine per mantenere lucida la mente, viva la speranza ma, soprattutto, per non sentirsi soli.
Intercettata una formula linguistica (il montaggio alternato di Marte-Spazio-Terra), "The Martian" riflette sulle distanze per poi eliminarle, facendosi manifesto di un mondo, di una cultura, di una comunicazione completamente convergenti.
Accusarlo di mancanza di un sense of wonder sarebbe cosa assai fuorviante, semplicemente perché il film è interessato a ciò che conosciamo (e a ciò che si rischia di perdere), mai all'alieno, mai all'ignoto, mai allo sconosciuto. Solo la parte finale, quella degli equilibrismi spaziali, non può che riportare alla mente gli incidenti di Gravity, il fluttuare nello Spazio, la paura per la deriva. Ma è un istante.

p.s. se mai un giorno si dovesse scrivere una fenomenologia di Matt Damon, continueremo sempre a vedere l'uomo qualunque catapultato in contesti drammatici. Come Ryan, ancora una volta, Matt Damon dev'essere salvato. E, di nuovo, la sua missione è una sola: resistere e sopravvivere, malgrado tutto.